L’urlo di Long Wei lascia interdetta Milano


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La narrazione è piacevolmente asciutta, volta a stemperare l’elemento noir con situazioni più "leggere"; è però da precisare che la percentuale di ironia, se così vogliamo chiamarla, non va addotta alla location italiana: Milano non è pizza e mandolino (per estensione nell’immaginario ultranazionale), così come l’Italia non è tutto un volemose bbene, ed il sottobosco cinese (nel capoluogo lombardo così come nel resto dello stivale) ha una fisionomia ben precisa, e vive e prospera come uno stato nello stato lontano dai riflettori. La scelta quindi di un protagonista cinese (Long Wei), aiutato da un comprimario nostrano (Vincenzo Palma) è un voluto ribaltamento delle parti, come tra l’altro dichiarato dagli stessi autori: è l’ennesimo esempio della ricerca di continuità nel rinnovamento di precise formule di narrazione, all'interno di un contesto - questo sì - inusuale, che pertanto costituisce una sfida nella sfida per farne emergere le eventuali potenzialità. Anche i luoghi parlano, spesso con lingue o sfumature diverse, non immediate, non prevedibili, non ovvie.

Long Wey, maestro del Kung Fu
Tavola di G. Maconi, Long Wey n.2, pag.67

(c) 2013 Editoriale Aurea

Long Wey, maestro del Kung Fu<br>Tavola di G. Maconi, Long Wey n.2, pag.67<br><i>(c) 2013 Editoriale Aurea</i>
Ciò che infine colpisce positivamente è che, nel pur fantasmagorico mondo delle arti marziali, esiste una realtà "vera" fatta di movenze, coreografie e potenza distruttiva, che altro non sono se non un raffinatissimo esempio di una concezione della natura e dell’uomo lontane dai canoni occidentali; questo per dire che la cura nel descrivere e riprodurre scene di lotta ha radici concrete: ciò che si vede è possibile (con svariati anni di allenamento, ma pur sempre possibile), e questo infligge un duro colpo a quella sospensione dell’incredulità così tante volte invoca a destra e a manca. Un noir descrive la realtà, e di realtà ce ne sono infinite: l’abilità di un autore è di portarne a confronto diverse tra di loro, garantendo a ciascuna pari dignità. A latere, va sottolineato la precisa scelta di utilizzare nel titolo una sola parola, come parte di un’intera frase costruita quasi come lo strillo principale, cui si associa il sottotitolo di contestualizzazione.

Il concetto di "bonellide" è superato, nuove dignità si aggiungono a solide realtà, il tutto all'interno di una continuità, ma stavolta senza rinnovamento, perché è di fumetto italiano che stiamo parlando.

Capitolo grafico

Parlare di due numeri scritti dal medesimo sceneggiatore è un conto, più ostico è mettere sullo stesso piano, o in una medesima trattazione, due tratti necessariamente differenti, con il rischio di cercare di liquidarli entrambi con qualche aggettivo ad effetto, giusto per compiacere le velleità dei due numeri. Per questo principale motivo si ritiene più proficuo concentrarsi sulle soluzioni grafiche da entrambi adottate, al servizio del più generale tono della storia.
L’accento principale va ovviamente posto sulle scene di lotta o scontro, nelle quali Long Wei fa mostra della sua perizia nelle arti marziali, introducendo il lettore a tutta una serie di tecniche che, seppure ricorderanno Kenshiro in più di una vignetta, sono costantemente ricondotte e riconducibili a quanto espresso poc'anzi. L’effetto è inevitabilmente una macerazione della gabbia propriamente detta, in favore di una maggiore plasticità degli spazi che trova una dimensione di profondità maggiore, e si protende verso il lettore con un felice misto di naturalezza e vigore. Da menzionare anche alcuni siparietti, in cui la medesima vignetta viene riprodotta con pochissimi o nulli cambiamenti, e lascia il compito di gestire la velocità d’azione allo scambio di battute (o all'assenza delle stesse, come spesse volte è possibile vedere sul Rat-Man di Leo Ortolani).
Interessante è poi la scelta di tagliare in tre strisce orizzontali l’intero blocco di due pagine: una soluzione che l’occhio non percepisce di primo acchito, ma di cui finisce per apprezzare la stereoscopia così indotta, immaginando un susseguirsi di sequenze con lenti movimenti di camera ad abbracciare l’intero set in piano americano, prima di zigzagare sui primi piani degli attori. Queste ed altre scelte grafiche testimoniano molto più di altri elementi un ostentato debito nei confronti di un certo genere di cinema (da intendersi più come riferimento a specifici registi, che come omaggio generalista ad una certa tipologia di movies), che gli autori di storie su carta sfidano in genere con risultati altalenanti, ma certo consci di osare per trascendere la pur falsa staticità del medium fumetto. Va sempre ricordato che per far esplodere l’intero pianeta può bastare sia una tavola, sia uno sproposito di CGI.

Le conclusioni sono difficili da trarre, anche perché si è solo all'inizio della stagione narrativa. Le premesse sono state ampiamente descritte dal team creativo da molto prima che il numero uno arrivasse in edicola, e finora è innegabile affermare che sono state mantenute. Il giudizio positivo si sostanzia quindi nella sua dignità di progetto complesso e multidimensionale, senza la necessità di fare confronti con chi è venuto prima. Come già detto altrove il concetto di "bonellide" è superato, nuove dignità si aggiungono a solide realtà, il tutto all'interno di una continuità, ma stavolta senza rinnovamento, perché è di fumetto italiano che stiamo parlando, ed in qualunque sua forma è espressione di quell'alto artigianato che non decade pur se commisurato al nume tutelare della cosiddetta alta professionalità.

Le torri di Milano
Vignetta di L.Genovese, Long Wey n.1, pag.20

(c) 2013 Editoriale Aurea

Le torri di Milano<br>Vignetta di L.Genovese, Long Wey n.1, pag.20<br><i>(c) 2013 Editoriale Aurea</i>
Long Wey 1-2, testi di Diego Cajelli, disegni di Luca Genovese, Gianluca Maconi, editoriale Aurea, 98 pag., bianco e nero, brossurato, giugno-luglio 2013, € 3,00 cad.

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