Atto II: Vorrei, potrei, dovrei (fare le cose a metà)

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Atto II: Vorrei, potrei, dovrei (fare le cose a metà)
David Murphy

Atto II: Vorrei, potrei, dovrei (fare le cose a metà)


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Recensione

Scheda IT-DM911-1

Scheda IT-DM911-2

La prima parte di questo articolo è visualizzabile in "Atto I: la Murpheide"

"[...] qui ho del lavoro da fare"

Dove eravamo rimasti? A David che entra in scena...in realtà l’azione si apre con una sequenza apparentemente tranquilla e centrata su personaggi funzionali solo ad essa, come da manuale del cinema d’azione; si parte con un campo lungo, che rapidamente si traduce in piano americano e quindi in un ritmato montaggio di interni, per culminare alla fine in una splash-page di due pagine che ha il preciso compito di chiarire subito quali siano gli intenti narrativi degli autori.
A questo punto, l’intro ha chiaramente fine e il lettore/spettatore smaliziato può quasi percepire la sigla di apertura. La sequenza delle pagg.16-19 sarebbe poi ideale per inserire i titoli di testa, con i nomi del duo creativo.

L’uso (per quanto possibile appropriato) di un linguaggio fortemente influenzato dal gergo cinematografico rispecchia il carattere stesso della sceneggiatura e della sua conseguente traduzione in immagini. A più riprese infatti, Recchioni durante la fase di work in progress ha sottolineato la peculiarità del lavoro, confessando il suo tentativo di dare fondo alle sue capacità per creare quasi un ibrido tra un fumetto d’azione e lo storyboard di un film d’azione, e i primi due numeri soprattutto gli danno ragione.
Spesse volte, anche su queste pagine elettroniche, si è disquisito della volontà/coraggio/capacità di trascendere le convenzioni fissate dalla cosiddetta "gabbia bonelliana", quasi gridando al miracolo per ogni minimo strappo alla regola, per quanto poi annacquato in un albo perfettamente rispondente per il resto agli standard di quelli che via Buonarroti (come dire: forse si è alimentato più fumo per alcune soluzioni proposte da Brindisi e Faraci per il primo numero di Brad Barron, piuttosto che per molte delle invenzioni grafiche che hanno caratterizzato le prime fasi del lavoro di Freghieri, su Martin Mystère, ma soprattutto su Dylan Dog). In DM911 (o quantomeno nei primi due numeri) si assiste a qualcosa di diverso dal solito, già a livello di concezione stessa della tavola. La scansione delle vignette, anche quando priva di contorni particolari o figure che eccedono le dimensioni delle singole strisce, appare sempre pensata come il risultato del movimento di una telecamera e di un montaggio sapientemente articolato. In fin dei conti, gli storyboard di cui sopra nascono appunto con l’intento di dare un primo impatto visivo di quanto verrà poi filmato. Nel nostro caso, in mancanza dell’ultimo passaggio (la conversione in immagini), è il momento precedente ad essere potenziato (per certi versi, a confronto di queste, molte tavole "Bonelli-standard" potrebbero essere paragonate ai lunghi piani sequenza che caratterizzavano le commedie all’italiana degli anni ’50 e ’60, quando i registi avevano al loro servizio attori che provenivano dal teatro, per i quali quindi vigeva una scuola improntata al "buona la prima", senza la necessità di continui stacchi di scena).

DM911 è il tentativo di creare quasi un ibrido tra un fumetto d’azione e lo storyboard di un film d’azione [...]
Il potenziamento sta nei disegni, si diceva. Il primo aggettivo che viene in mente guardando le tavole di Cremona è "secco": un tratto secco e deciso, ma che tuttavia non si traduce necessariamente in "sobrio". Il concetto di sobrietà reca in sé l’idea di una sorta di minimalismo, ma anche di compostezza, di garbo, gattini e tazze da the vaganti per la tavola da disegno. Dalla mano di Cremona invece promanano graffi di nero, onde di linee cinetiche a diversi gradi di condensazione, nelle quali si sostanziano persone e cose, paesaggi e scenari, ed intorno a questi finanche le vignette stesse, le quali quindi, come già accennato, si rincorrono sul bianco della tavola senza troppo badare a campi, contorni e spazi: la camera a mano che non smette di muoversi, cercando il giusto mezzo tra quella fluidità che incarna la classe di De Palma, ed il vorticume proprio di J.J. Abrams.

"[...] è stato un gesto stupido!" (DM n.1)

Dopo la sequenza iniziale, le successive sei pagine del n.1 sono un elogio non dichiarato della stupidità umana, sia dal punto di vista retorico (il terrorismo come una delle peggiori forme di abbrutimento dell’uomo) che da quello narrativo (David inizia ad interrogarsi sul motivo della sua presenza in quel luogo ed in quel momento - che ci faccio qui? - , e soprattutto sulle motivazioni alla base del suo comportamento - perché sto facendo quello che faccio?).
Il cammino che lo porterà alla scoperta, e alla coscienza, di sé ci viene presentato subito, in medias res, e fino ad una manciata di pagine dalla fine del primo numero ci si diverte a ricostruire l’andamento dei fatti attraverso un ritmo alternato presente/passato/presente, che tiene desta l’attenzione e offre man mano al lettore un quadro completo della situazione senza perderne di coerenza interna e livello di comprensibilità. La sequenza degli eventi è chiaramente costruita per invogliare addirittura ad immaginare un’alternanza nella colonna sonora, allegramente divisa come si conviene tra hardcore e softcore.
Tutto questo serve a sottolineare una volta di più quanto affermato in precedenza: la suddivisione in vignette della tavola va sempre considerato come un "mezzo" per trasmettere un messaggio al lettore. È elemento cardine del lavoro di sceneggiatura, la quale non si limita al solo "chi dice cosa", ma deve anche sapere evidenziare al meglio anche "in quale modo chi dice cosa"; tenendo presente questa doverosa distinzione tra "mezzo" e "fine", acquistano pertanto una logica anche elementi apparentemente di contorno, come ad esempio la diversa colorazione delle tavole per rimarcare le due linee temporali che si intrecciano lungo l’arco delle 94 pagine dell’albo, in luogo del più classico ricorso a vignette dai contorni arrotondati (che indicano eventi del passato e/o ricordi evocati da un personaggio); dato che però non siamo qui per disquisire - né tantomeno insegnare - i segreti di questo mestiere, è perciò tanto più gradito segnalare questo link al blog di Medda che si compiace di offrire una sbirciatina a quel famoso et misterioso back office di cui già detto (Vd. Atto I).

A terra!

(c) 2008 Panini

A terra!<br><i>(c) 2008 Panini</i>

Più in generale, l’atmosfera che si respira durante la lettura del primo numero è legata ad un diffuso senso di velocità, sia nella sequenza degli eventi, sia soprattutto nella distribuzione della res narrativa: la cifra dei dialoghi ha infatti una limitata consistenza, se messa in relazione alla generale dimensione dell’albo. Di certo non c’è traccia di spiegazionismi (ed è anche normale, trattandosi del numero di apertura!), da intendersi nel senso di verbosità, ma è anche vero che, ad un’analisi più approfondita, la presenza di testo è effettivamente limitata. Come però è possibile ravvisare nell’efficace sequenza del tornado, il ricorso combinato a splash pages, ad una precisa cura nella scansione delle vignette, oltre ad un limitato uso di balloons concatenati (nello stile ad esempio di Brian Michael Bendis) - e al di là ovviamente all’intrinseca carica di dinamismo dei disegni - mascherano con abilità questo particolare, con il risultato di una lettura "leggera e veloce", tanto bum bum e crash crash, ma anche coraggio e buoni sentimenti: un cous cous di paranza fumettistica che accontenta il palato e, in un modo o nell’altro, riesce pure a posizionarsi sul mercato con un non disprezzabile rapporto qualità/prezzo (per quanto la mancanza dei numeri di pagina trasferisca un’idea non certo positiva: spesso sono i dettagli a fare le differenze!).


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