Quel Dylandogone venuto dal passato

vent'anni e (non) sentirli
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Quel Dylandogone venuto dal passato
Dylan Dog Gigante 21

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Il 2012 si è chiuso celebrando tutta una serie di anniversari di spessore nel mondo dei comics, da Diabolik a Martin Mystère, passando per l’inossidabile Tex. Può quindi capitare che, nella ridda di festeggiamenti, qualche altra ricorrenza passi in secondo piano: è il caso del Dylan Dog formato gigante (per gli amici "DDone"), che quest’anno ha tagliato il traguardo della ventunesima uscita annuale consecutiva in edicola, ossia i vent’anni di vita editoriale.
Il formato gigante, precedentemente riservato soltanto a Tex, il più famoso e longevo protagonista bonelliano, dopo Dylan Dog ha contaminato con alterne fortune altri personaggi della scuderia Bonelli, ed ha costituito a suo modo una sorta di spartiacque all’interno della tradizione editoriale di via Buonarroti: il cambiamento della foliazione (per dimensione e numero di pagine) non voleva essere infatti soltanto "la stessa storia, ma con vignette più grandi", quanto piuttosto suggerire un senso di immedesimazione ancora superiore, una sorta di dolby surround su carta che aveva - e di certo conserva - lo scopo di impattare sul lettore in una maniera innovativa, o quantomeno rinnovata.
Sarebbe a questo punto anche troppo facile filosofeggiare sul perché e il percome si sia passati da capolavori come Totentanz a storie che con una certa difficoltà avrebbero visto la luce sulle pagine dell’inedito mensile: l’avvicendamento degli autori e delle politiche editoriali ha comportato diversi cambi di rotta, cui va imputata la pubblicazione per alcuni anni di storie uniche extra-long (pur con un paio di buoni risultati), prima di tornare alla formula iniziale basata sull’alternanza di storie di lunghezza canonica e storie brevi. Proprio tra queste ultime sono da annoverarsi alcune "chicche" di prim’ordine - purtroppo non è il caso del DDone di quest’anno (ma ci arriveremo dopo).

I Giganti: una sensazione di dolby surround su carta
Ri-partiamo dal titolo: perché l’uso del termine "passato"? Perché già da una prima lettura si evince quasi a fior di pelle un ritorno, o almeno una ricerca più focalizzata, di certe atmosfere tipiche del personaggio, che nel tempo sono inevitabilmente sbiadite: il soprannaturale che aleggia recondito in luoghi a loro volta nascosti in una Londra lunare, ben lontana dal glam di Piccadilly e dintorni; le spiegazioni razionali (ma non troppo) di fenomeni irrazionali, ed i finali a sorpresa; l’occhio del narratore che si concentra su personaggi secondari, come se indugiasse sullo spazio bianco che separa due vignette; gli incubi dell’indagatore dei medesimi; il ricorso a tematiche classiche, che rappresentano in fin dei conti l’ossatura della serie stessa. Mancava solo il clarinetto con la custodia a tracolla, ma di quello si sono perse le tracce già nel secolo scorso.
Scelta voluta? Difficile dare una risposta da una prospettiva esterna. Scelta che paga? Purtroppo non molto, e questo per giustificare il "non" del sottotitolo.

Il "parassita" avvolge gli incubi di Dylan
disegni di Alessandro Baggi

(c) 2012 Sergio Bonelli Editore

Il "parassita" avvolge gli incubi di Dylan<br>disegni di Alessandro Baggi<br><i>(c) 2012 Sergio Bonelli Editore</i>

Nella prima storia lunga, Il parassita, Cavaletto esplora il tema tipico delle haunted houses, che tanti illustri precedenti vanta tra le avventure di Dylan: solo per rimanere nell’ambito dei giganti, basti pensare a L’inquilino del terzo piano. Lo schema classico proposto si manifesta ben presto fin troppo classico, palesando un’assoluta mancanza di volontà nell’allontanarsi dai binari canonici: c’è la bella di turno, la maledizione che aleggia sul palazzo, il mostro delle fogne (in questo caso delle tubature), e tutta una serie di personaggi standard che aggiungono quel po’ che basta all’economia del racconto.
A diminuire ulteriormente l’asticella del giudizio generale concorrono i disegni, ad opera di un Alessandro Baggi al suo esordio tra le pagine di Dylan Dog: è infatti proprio la fisionomia di Dylan, troppo artefatta e mutevole, dal viso costantemente aggraziato, a costituire il primo deficit del suo lavoro. Una storia come questa avrebbe necessitato di un tratto "sporco", quasi grandguignolesco, di certo molto meno chiaro. A ciò va aggiunto infine un generale senso di staticità dei suoi personaggi, che ha come conseguenza quella di non riuscire a sfruttare in maniera soddisfacente le potenzialità di impatto di cui sopra, insite proprio nella dimensione delle tavole.

Un nuovo pellegrinaggio in un palazzo infestato è quanto propone Marzano nella seconda storia lunga, La voce negata, in cui l’autore punta all’immedesimazione con il cattivo di turno, esplorandone pensieri e ricordi, attraverso l’impiego diffuso di flashback e didascalie: un giallo venato di soprannaturale, non privo di ritmo, e impreziosito dall’immissione di un paio di twists più o meno scontati, ma soprattutto adeguatamente supportato dei disegni di Roberto Rinaldi, ormai sporadica presenza tra le pagine della serie, ma capace di mantenere pressoché inalterato il proprio stile nel corso degli anni. Anche in questo caso, un tratto "pulito" e lineare, che però riesce a far recitare in maniera convincente luoghi e personaggi, accentuando positivamente l’evolversi della sceneggiatura, che quantomeno ha il pregio - non sempre scontato - di saper gestire bene le pagine a disposizione.

La presenza si manifesta in tutta la sua violenza
disegni di Roberto Rinaldi

(c) 2012 Sergio Bonelli Editore

La presenza si manifesta in tutta la sua violenza<br>disegni di Roberto Rinaldi<br><i>(c) 2012 Sergio Bonelli Editore</i>
Le principali note dolenti sono da ascrivere alle due storie brevi, entrambe a firma di Gualdoni, attuale curatore della serie e succedaneo di Marcheselli. In questa sede come in altre, è abbastanza chiaro come Gualdoni stia in qualche modo cercando di rispolverare tutta una serie di tòpoi caratterizzanti l’universo dylandoghiano, eventualmente forte della sua posizione "privilegiata" che gli permette di fare scelte che altri autori non si arrischierebbero a proporre: pensiero questo che nasce dalla valutazione di quanto dichiarato qui e là da più di uno sceneggiatore, secondo cui la sfida principale è quella di cercare temi sempre nuovi, proprio per non correre il rischio di "rivisitare" un tema classico, per poi finire imbrigliati in direzioni narrative preordinate.

I dubbi del ritorno
disegni di Gabriele Ornigotti

(c) 2012 Sergio Bonelli Editore

I dubbi del ritorno<br>disegni di Gabriele Ornigotti<br><i>(c) 2012 Sergio Bonelli Editore</i>
La ricerca del nuovo, così come la rielaborazione del precedente, sono strade parimenti insidiose, e spesso è solo il riconoscimento della propria onestà intellettuale a far capire quale delle due si possa (o si debba) intraprendere con le aspettative migliori. Con questo non si vuole mancare di rispetto a nessuno; è però per certi versi amaro leggere una storia come Morte apparente, che fin dal titolo mostra una povertà di intenti, per poi arrivare all’ultima vignetta e rendersi conto di come una storia di massimo un paio di tavole sia stata artatamente allungata fino a 24.
Qui subentrerebbe un altro (periglioso) discorso sulla composizione del pubblico di lettori: da una parte quelli di vecchia data, in qualche modo resi consci, se non esperti, delle principali dinamiche narrative legate al personaggio, e pertanto portati a concepire un ragionamento come quello sopra esposto; dall’altra, le cosiddette "nuove leve", anch’esse in realtà da suddividere ulteriormente, per le quali ci si chiede comunque se siano in grado di percepire uno dei messaggi rivoluzionari che Dylan Dog portò con sé al momento della sua uscita in edicola. In realtà, qui si tratta solo di un’eco, ma la forza insita nell’idea mantiene ancora una sua propria carica "pesante", ed è ancora capace di bucare la pagina, come si dice in gergo. Personalmente, a questi lettori consiglierei di recuperare i primi due almanacchi della paura, e poi tornare sulla storia in questione.

Discorso analogo per quanto concerne l'altra storia breve, Qualcuno sul fondo: in questo caso, non va disprezzata la capacità dell’autore di riprendere in maniera puntuale alcuni momenti di storie del passato remoto di Dylan (ci muoviamo infatti tra i num. 1, 2, 4 e 5, con un breve riferimento ai num. 19 e 31), raccontando la storia di un "nessuno", la cui banalità può venire "eretta a sistema" (tanto per rubare un’espressione proveniente sempre da quel periodo!) solo in un limitato arco di tavole. Anche qui, il mondo che si muove sullo sfondo delle gesta dell’eroe viene chiamato ad una ribalta che paradossalmente non fa che accentuarne la sua condizione di stato narrativo grezzo.
La discrasia con il presente è data dall’inutile veemenza con cui si batte sui termini cardine come "l’orrore", o "nessuno", che tanto hanno significato (e significano) per Dylan, ma che in questo contesto così palesemente fuori tempo massimo lasciano un forte vuoto, in quanto privi di quella (di nuovo) forza insita che tanto riuscì a fare scalpore nei primi anni di vita editoriale del personaggio.

Pronti i titoli di coda, dissolvenza verso il buio
disegni di Claudio Stassi

(c) 2012 Sergio Bonelli Editore

Pronti i titoli di coda, dissolvenza verso il buio<br>disegni di Claudio Stassi<br><i>(c) 2012 Sergio Bonelli Editore</i>
Come da copione, in soggetti come questi a Dylan viene riservato un ruolo marginale, per cui le prove dei disegnatori (anch’essi in qualità di esordienti sulla testata) sono da valutarsi principalmente per quanto concerne le ambientazioni ed il resto dei comprimari. Ornigotti riesce a confezionare una storia molto cupa, "notturna" quasi, che conferisce un ottimo senso di noir, e prende su di sé il carico lasciato in eredità da un soggetto molto poco consistente. Anche Stassi ben svolge il compito di accompagnare per mano il non-protagonista della storia nel corso della sua vita, rispondendo al tutt’altro che semplice compito di creare quel legame empatico ma non troppo con il lettore, basato sul difficile equilibrio tra il rappresentare "la" vita di Arthur Mills, la quale è contemporaneamente "una" vita tra le tante che, nel corso degli anni e delle storie, hanno incrociato l’esistenza di Dylan Dog.

Il giudizio rimane contrastante: compiaciuto per aver ritrovato - clarinetto a parte - il Dylan "di un tempo" (tanto per abusare di una frase ad effetto), e disappointed per non averlo in realtà trovato davvero. Come già ripetuto fin troppe volte, la costanza di alcuni pilastri narrativi per il personaggio ed il suo mondo non può che far volgere agli autori lo sguardo al passato, per rielaborarlo, o magari purtroppo anche solo per riproporlo tout court, come in questo caso. Quello che però è apparentemente un circolo, andrebbe visto ed inteso come una spirale che, pur mantenendosi entro il medesimo diametro, può essere percorsa verso l’alto, e quindi verso dinamiche nuove, sebbene all’interno di paletti predefiniti.

...Un giudizio finale contrastante...
È questa una consapevolezza che ogni autore ha, o che impara a fare propria, specie se si pone in primis come lettore egli stesso: solo in questo modo la distanza con il personaggio si affina progressivamente. Se manca questo ingrediente, qualsiasi dolby surround non fa che imprigionare il lettore, invece di avvolgerlo, e alla fine dell’episodio quella che rischia di rimanere è appunto solo la fine di un’emozione.

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