Cherchez les femmes


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La predatrice

Barbato si produce in una storia molto "femminile", la più intonata al tema prescelto per l'albo, e finanche perfida.

Pur lavorando, per così dire, in miniatura, oltreché su uno spunto non troppo originale per quanto interessante, la "madrina" Paola Barbato si ingegna invece a rendere la narrazione coinvolgente e movimentata attraverso un intreccio abbastanza articolato dei punti di vista e dell’ordine cronologico (va detto, tuttavia, che traspare in più di un punto una certa velocità d'esecuzione, e che alcuni passaggi sono troppo repentini). Ne vien fuori una storia molto "femminile" - la più intonata al tema prescelto per questo numero o, se si preferisce, l’unica in cui l’elemento muliebre non sia limitato al sesso delle autrici -, finanche perfida nello stigmatizzare manie e fisime delle donne innamorate, che però riposano su solide basi (leggi l’inaffidabilità maschile), considerando il finale! Ecco: il finale. Va bene che l’angolo visuale privilegiato è quello della paranoica coprotagonista, per cui si potrebbe mettere in conto una quota di "deformazione prospettica", va bene l’ironia amara e velenosa, va bene lo strapazzamento del titolare di testata, ma le pagine terminali riescono finanche fastidiose, per come dissipano l’atmosfera del piccolo thriller, sia pure sui generis, e stonano con la psicologia di Dylan. L’ultima tavola, poi, con una scena-tipo ormai logora e abusata, forzata sulla variante "finale aperto", non riesce a coronare in senso pungente e sghignazzevole la lettura.

La brendoniana Lola Airaghi fornisce anche lei una buona prestazione, centrando le fisionomie e la recitazione dei personaggi (si può notare un certo influsso di De Angelis e, più alla lontana, di Manara, specie nella caratterizzazione di Thelma) e accompagnando con efficacia il racconto; forse si sarebbe potuta maggiormente calcare la mano sulla componente morbosa e sensuale, ma il risultato è soddisfacente. Alquanto piatta, invece, la colorazione.

Il racconto finale vuole immergersi a fondo nel flusso storico della testata, ma l'attuazione difetta in più di un aspetto di coerenza e concretezza.

Tagli aziendali

Il racconto finale s’inserisce in quel filone distopico tracciato da storie come L’ultimo uomo sulla Terra o Il pianeta dei morti, esplicitamente citate nel finale in un contesto di voluta indeterminazione. Al di là di questa cornice si percepisce l'intento di immergersi ancor più a fondo nel flusso storico della testata: acquistano così senso non soltanto i numerosi richiami interni ad essa, dichiarati o meno (si menziona Lama di rasoio con il consueto asterisco, mentre è la memoria del lettore a rispolverare da sé Il confine o L'incubo dell'indagatore, a voler tacere dei due team-up tra Martin Mystère e Nathan Never per quanto attiene all'idea di base), ma anche una volontà di aggiungere qualcosa alla "mitologia" evocata, e sotto quest'ultimo profilo l'insieme non difetta in toto di una sua suggestività dylaniata e funzionalità. A ciò purtroppo non fa sponda una altrettanto efficace capacità di attuazione, la quale anzi difetta in più di un aspetto di coerenza e concretezza: a partire dal titolo (poco centrato), sono non pochi i buchi di sceneggiatura, che fanno compiere salti alla storia minandone la comprensione; oltretutto, a parità di tavole a disposizione, Chiara Caccivio - anche lei al suo esordio sul palcoscenico dylaniato - non riesce a imbastire un'atmosfera e un'impalcatura narrativa paragonabili a quelle de Il pianeta dei morti, per buona parte in virtù di un brusco cambio di ritmo, che da lineare e disteso nella prima metà (dove già vengono forniti, oltre a un'ormai inusuale parentesi splatter, degli indizi per orientarsi, come il nome della cittadina o l'evidenziazione della parola «secoli» a p. 107) diviene convulso e trafelato nella seconda, con un confronto finale che chiude quasi di botto la narrazione (l'ultima tavola, però, è discretamente e delicatamente toccante). Resta nel complesso la sensazione che il setting non sia stato esplorato in tutte le sue potenzialità, sia sul fronte dell'universo distopico - ma non perché vengano lasciati degli spazi di non-detto, anzi! - sia su quello del contesto personale in cui viene posizionato il protagonista, davvero difficile da immaginare come family man.

Family portrait
p. 109 dell'albo, disegni di Valentina Romeo

(c) 2011 Sergio Bonelli Editore

Family portrait<br>p. 109 dell'albo, disegni di Valentina Romeo<br><i>(c) 2011 Sergio Bonelli Editore</i>

Alle matite Valentina Romeo, in forza alla Star Comics e da non molto arruolata nella scuderia di Nathan Never, mette in mostra un tratto forse un po' rigido, ma non legnoso e comunque elegante e preciso, caratterizzando personaggi e ambientazioni con espressività. La potenza visiva è rinforzata da una colorazione altrettanto puntuale e limpida.

Il Color Fest a tema procede con un'incertezza accentuata da comuni denominatori perlopiù ancora alla ricerca di un'adeguata messa a fuoco.

Spunti per una non-conclusione

Chiuso l'albo, insomma, la sensazione prevalente è che sia ancora rimandato l'appuntamento con una sperimentazione che esuli dall'una tantum del colore - in verità anch'esso non più così raro in Bonelli - o della particolare interpretazione grafica (e pure questo aspetto è stato attutito dall'avvicendamento di molti disegnatori storici della serie sui numeri fin qui pubblicati). Soprattutto il Color Fest a tema, poi, procede con un'incertezza accentuata da comuni denominatori che nella maggior parte dei casi si sono dimostrati come ancora alla ricerca di un'adeguata messa a fuoco. Di impressioni quindi se ne insinuano tante, forse in parte fuori luogo, nondimeno si può pensare che l’alternanza di nomi nuovi ai testi e ai disegni permetta ai responsabili di testata di mettere su una sorta di "parco-reperibilità" di autori, in vista di ricambi generazionali, oppure per costruirsi una "via di fuga" in caso di divergenze con gli artisti attualmente impegnati sul personaggio (ma questa è una cattiveria gratuita! :-)). Volendo però guardare al positivo, il moltiplicarsi di storie e testate dedicate a Dylan va letto nell’ambito di una politica editoriale di espansione che non dipende assolutamente dalla necessità di rinvigorire il personaggio (che anzi gode sempre di ottime vendite), quanto dalla ricerca di una costante "rimessa in gioco" orientata a perseguire una sorta di continuità nel rinnovamento in un orizzonte temporale non (ancora) meglio specificato. Dylan dovrebbe cambiare del tutto, per non cambiare? Chissà... Tuttavia un fattore fondamentale da tenere in conto rimane sempre e comunque la percezione da parte del pubblico dei lettori.

Dylan Dog Color Fest n. 6, di AA. VV., Sergio Bonelli Editore, 132 pp. colore, brossurato, maggio 2011, €4,8

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