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MV40
LA SCENEGGIATURA

Scrivere a fumetti

La sceneggiatura
L'incipit
Dalla Cina
          con furore
Hong Kong
          flashback
MV versus
          Magg. Baker
Il gran finale


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Scheda MV40


Mi immagino che il mio comodino sia come il vostro, o almeno come quello di molti di voi: pieno. Sì, insomma, una pigna di fumetti alta così che scala la parete verso il soffitto e ogni tanto barcolla pericolosamente. Segno di una certa incapacità a selezionare le letture, di mancanza di tempo libero per leggere (maledetta playstation!), ma anche segno di una passione grande; quella per i fumetti, appunto. E quando si ha una passione così, si resta davvero ingolositi dalla possibilità di vedere cosa c’è dietro la realizzazione di un albo; un po’ come vedere uno spettacolo da dietro le quinte, o come quando il prestigiatore svela il trucco. Una sceneggiatura non è qualcosa che abbia un interesse letterario, può addirittura riuscire un po’ noiosa, ma offre elementi di analisi affascinanti a chi sia in qualche modo interessato a scoprire anche i meccanismi che regolano la realizzazione di un fumetto.
Il dietro le quinte, appunto.

Scrivere a fumetti
articolo di Giuseppe Pelosi

La sceneggiatura di cui qui presentiamo ampi stralci, è interessante perché ci mostra il modo di lavorare di Manfredi, svelandoci almeno in parte il trucco del prestigiatore. Solo in parte, in realtà, dato che il lavoro finito ci dice poco o nulla del processo attraverso il quale si è giunti al risultato, poco o nulla ci dice del lavoro di documentazione compiuto dall’autore e anche dei suoi ripensamenti, delle correzioni, le cancellature... Si tratta, però, già di qualcosa, e quindi da ciò cominciamo nel tentativo di capire almeno un poco quello che accade prima che Magico Vento raggiunga il nostro comodino.

Il lavoro di Manfredi
La prima considerazione è necessariamente per il titolo: il file inviatoci dall’autore porta il titolo di “Dieci tonnellate d’ossa”; l’albo è poi uscito invece intitolato “Il clan della tigre”. Dalla sceneggiatura apprendiamo anche che l’albo uscito con il titolo “La fuggitiva” era invece intitolato “Due”. Sembra quasi che in sede di scrittura l’autore “tenti” titoli meno classici, che probabilmente vengono poi modificati a livello di redazione (che ci sia lo zampino del bravissimo Renato Queirolo?), forse perché occorre non dimenticare che Magico Vento è comunque una testata western Bonelli, e la scelta di una titolazione classica, dunque, quasi si impone. Del resto non sono invero molte le testate Bonelli che sfruttino in maniera originale e alternativa quel luogo anaforico per eccellenza che è il titolo; Dylan Dog, Nathan Never, ma poco altro, forse.

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Orgoglio cinese
di Milazzo (c) 2000 SBE

   
 

Una seconda considerazione è finanche banale: lo stile dell’autore è ampiamente cinematografico. Del resto Manfredi ha scritto e scrive molto per il cinema. Ma, si badi, per stile cinematografico non intendiamo riferirci unicamente alle ovvie abbreviazioni, tipiche di chi scrive sceneggiature a fumetti (MF per mezza figura, FI per figura intera, PP per primo piano, eccetera), che servono felicemente e sinteticamente ad indicare al disegnatore il tipo di “inquadratura” che la vignetta deve avere. Intendiamo anche il modo di raccontare la storia, quello che gli americani chiamano story telling. Si è rilevato più volte come lo story telling di Manfredi sia ricco di cambi di scena, sino a produrre un ritmo sincopato, con continui cambi di situazione, sino a riprodurre nel fumetto ciò che nel cinema si chiama montaggio alternato. Questo modo di raccontare, che nel cinema è abituale, da Eisenstein in poi, nel fumetto, e specialmente nel fumetto bonelliano, non è così scontato; in realtà tutti lo praticano, ma Manfredi esalta questa tecnica all’ennesima potenza (cfr. ad esempio MV 23, "Gli spietati"). Anche in questo numero lo story telling è complesso e cinematografico, alternando presente e passato (la scena in flashback), alternando luoghi e situazioni. Ecco così che Ned e Poe possono agire in contesti differenti, quasi binari paralleli (trattandosi di ferrovia la metafora è d’obbligo...) che si incontrano solo nel finale, dopo due climax separati e appunto paralleli.

Altro elemento tipicamente cinematografico della narrazione è il frequente e saggio uso dell’ellissi, cioè il non dire ciò che è ovvio e che il lettore, che Manfredi, contrariamente ad altri, suppone intelligente, capisce anche senza che gli venga detto. Un esempio tra i tanti:

Tavola 43
1. Stacco. Est. Notte. La Chinatown di un’anonima città del west. Le costruzioni sono quelle classiche del west, ma ci sono scritte cinesi qua e là e lampioncini fuori dai locali. Un carro pieno di paglia sta transitando nella strada, tirato da un bue e guidato da un anziano cinese. Wu Sung è seduto sulla paglia (insomma, ha trovato un passaggio per arrivare in città) e ha accanto a sé un bastone e delle bisacce. Si sta guardando intorno.

Oltre a ciò, quello che emerge leggendo la sceneggiatura è la puntigliosità di Manfredi: l’autore fornisce al disegnatore indicazioni precise su abiti, oggetti, volti dei personaggi, allegando documentazione iconografica della più varia (foto o videocassette). Si veda ad esempio questo brano di sceneggiatura:

Tavola 4
1. FI di Wu Pei in controluce sulla soglia della porta spalancata. Indossa un elegante vestito bianco con maniche ampie e lunghe, e una fascia attorno alla vita (cfr. per l’abito il frammento che ti allego dal film “Moon Warriors”). Le lunghe maniche si agitano al vento. Ha tre le mani una ciotola piena di cera e con stoppino acceso.

Altrettanto interessante ci pare la precisione con cui il testo spiega logicamente anche ciò che non viene descritto nella vignetta: l’origine di una fonte di luce, per esempio (cfr. la sceneggiatura per la vignetta qua sotto), o che fine possono aver fatto i cavalli di Ned e Poe, o altro ancora.

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Guarda che luna!
di Milazzo (c) 2000 SBE

Un altro bell’esempio in questa vignetta:

Tavola 40
4. In PP, visto da dietro, il teschio che rotola a terra, fermandosi ai piedi (nudi ) di Wu Sung. Di Wu Sung ora vediamo solo i piedi. Poco dietro di lui, c’è altra gente (i parenti dei morti).

Ecco, il grado di parentela non può certo essere disegnato, ma in questa indicazione, logicissima, il disegnatore può cogliere il tipo di espressione che questi personaggi devono avere, e che difatti hanno quando vengono inquadrati, tre vignette dopo.

Da ultimo, ci preme segnalare una certa letterarietà del testo: l’autore ha scritto anche romanzi e si nota che il suo vocabolario non è per niente limitato a quello della narrativa popolare; in realtà Manfredi stesso ci raccontava in un intervista di come, ogni tanto, senta il bisogno di scrivere altro proprio perché il numero di vocaboli che si impiega solitamente scrivendo un fumetto è piuttosto limitato; in effetti qui troviamo termini inusitati e vocaboli altamente letterari, che non compaiono nei balloon, dove stonerebbero, ma che concorrono alla chiarezza con cui lo sceneggiatore spiega le immagini al disegnatore: parole come “avvoltolato”, “svelle”, “scatola oblunga” e così via. Questa cosa ci pare significativa almeno a due livelli: il primo è quello appunto dello “sfogo” dell’autore, che sembra sentire il bisogno di usare parole attingendo da un lessico più ampio almeno in sede di indicazioni al disegnatore; la seconda è che forse, almeno a livello di fumetto popolare bonelliano, oggi come oggi il rapporto disegno-testo è passato a vantaggio del primo; giusto o sbagliato che sia (secondo noi giusto, ma tant’è), questo diventa necessariamente un discorso personale, che dunque potrebbe differenziarsi da autore ad autore; forse, anche qui, esiste l’autore capace di raccontare lunghe scene senza avvalersi delle parole e quello che invece non rinuncia mai al sistema di modellizzazione primario, il linguaggio verbale appunto, ed esiste la testata che per sua natura necessita di molte parole, come quella che offre più possibilità a piani-sequenza disegnati.

Il lavoro di Milazzo
E qui il nostro compito si fa davvero difficile: intrepretare le scelte del disegnatore, il perché si stacchi, a volte, dalle indicazioni dello sceneggiatore. I cambiamenti di Milazzo non sono pochi, anche se nessuno o pochissimi sostanziali; quello che fatichiamo a capire è il perché delle sue scelte e soprattutto se un perché c'è, o se è semplicemente l'estro dell’artista che ovviamente rivendica la sua possibilità di scelta. Qua il problema non è: “meglio prima, meglio adesso”, ma è proprio “perché così e non come era scritto”. Il fatto è che per compiere questa analisi del rapporto tra sceneggiatura e disegni non ci è capitato un numero qualunque, ma un numero disegnato da Milazzo. Un disegnatore fuori dall’ordinario. Milazzo è un disegnatore “pensante”, in grado di compiere delle scelte, di “interpretare” le indicazioni ricevute, di scegliere tra diversi modi di raccontare; non è un semplice esecutore, è in grado di pensare autonomamente soluzioni di sceneggiatura, di scegliere, di interpretare. Come Mina: canta brani di altri, ma quando li canta lei diventano una cosa sua, non semplice riproposta. Come fa Milazzo a compiere tutto ciò? Semplice: esperienza. E, meno semplicemente, genio. La prima è quella che consente di fare ciò che fa Milazzo a praticamente tutti i disegnatori bonelliani, che sono i migliori in quello che fanno; il secondo è quello che consente a Milazzo di fare quello che fa nella maniera personale in cui lo fa.

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Questi fantasmi
di Milazzo (c) 2000 SBE

   
 

Il nostro imbarazzo in sede di analisi nasce dal fatto che si nota subito un fatto: Manfredi ha scritto così, Milazzo ha disegnato cosà; e come lo vedi, immediatamente ti accorgi che anche come l’ha disegnato lui è ottimo; è “riuscito”; magari ha tolto un particolare, che reinserisce di soppiatto due vignette dopo, e capisci che ci sta anche lì, anzi, forse pure meglio, certe volte; quello che non capisci, quello che non abbiamo capito noi, cribbio, è il perché; di una cosa siamo convinti: anche come l’aveva messa Manfredi avrebbe funzionato, sarebbe stato comprensibile; e allora perché?

Le scelte di Milazzo sembrano tutte improntate alla sintesi; come se le indicazioni di Manfredi venissero trovate ridondanti. In realtà non vengono eluse, per niente: solo dilazionate. Si veda ad esempio come viene disegnato il vestito di Wu Pei che veniva descritto nella vignetta 1 di tavola 4: con buona pace dell’accurato riferimento visivo, la bianchezza dell’abito non passa nel disegno di Milazzo, e il lucore viene dato dallo stoppino acceso, semplice spruzzo bianco su sfondo nero. Eppure, anche solo dal nero della silhouette, tutta l’eleganza dell’abito della fanciulla viene comunicata lo stesso. Sembra come per magia. Del resto perchè fornire già ora particolari che la vignetta 3 di tavola 6, qui riprodotta, riporta in piena luce?

A smentirci, subito un esempio completamente diverso, quello dello scontro tra Wu Sung e il soldato Wilson (cfr. sceneggiatura e immagini qui sotto): le precise indicazioni di Manfredi, preoccupate di non esagerare con l’esibizione di abilità nelle arti marziali del cinese, vengono rispettate alla lettera, con misura perfetta e senza davvero eccedere in stonati particolari di gratuita spettacolarità. E comunque, ancora una volta è l’“economia”, che sorprende e incanta nel disegno di Milazzo: questa straordinaria capacità di esprimere tutto quello che c’è da esprimere con pochissimi tratti, e niente in più.

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Ne uccide piu' la scopa...
di Milazzo (c) 2000 SBE

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Botta finale
di Milazzo (c) 2000 SBE

E questo vale anche quando, come in questo caso, sembra quasi che Milazzo si limiti a fare il suo lavoro, nel senso che risulta forse meno coinvolto, anche emotivamente, nella realizzazione della storia; c’è un che di freddo, in questa prova del maestro ligure, come forse anche nelle precedenti per Magico Vento, ma con tutto ciò, l’esito è un disegno che parla, che racconta, che dice tutto quello che c’è da dire, e lo fa senza strafare.

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Hong Kong
di Milazzo (c) 2000 SBE

L’alternarsi di pieno e vuoto, di bianco e nero, di staticità e movimento, è costruito in maniera simmetrica, matematica, perfetta. E leggendo la sceneggiatura di Manfredi a questa vignetta, ci si accorge come non dovesse essere facile, per un disegnatore, inserire tutti gli elementi richiesti. Eppure Milazzo, al di là delle precise indicazioni, coglie lo spirito, di quella vignetta, e lo esprime alla sua maniera, perfetta.

Certo, fatica faranno le “nuove generazioni” a cogliere il valore di questo tratto così poco spettacolare; fatica faranno a cogliere la bellezza di questo disegno non siliconato, di questo disegno intelligente e intellettuale, di questo disegno che sa parlare. Ma anche se Milazzo è un piacere per pochi, quei pochi non recedono, anche quando, come qui, il maestro rinuncia ai toni forti (in sceneggiatura, Manfredi descriveva le condizioni dei cinesi molto più crudamente di quanto poi siano state disegnate), e offre una prova più tecnica che artistica.

Continua... Nella pagina successiva: le pagine della sceneggiatura
 
 


 
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