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" L'uomo senza volto"


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La nuova pièce di Gianfranco Manfredi, in scena al Teatro della 24esima, appassiona lo spettatore per la felice caratterizzazione dei personaggi, il ritmo vivace e brioso, un pizzico di suspence, i frequenti colpi di scena. Il pubblico applaude a scena aperta. Si replica fino al mese prossimo.

La grande magia
recensione di Giuseppe Pelosi



TESTI
Sog. e Sce. Gianfranco Manfredi    

Vi è, da qualche tempo, al servizio di Gianfranco Manfredi, una servetta, svelta e graziosa: si chiama fantasia. Deve essere lei che consente all'autore di offrirci testi appassionanti con regolarità stupefacente. E questo copione conferma la regola: alla felicissima caratterizzazione dei personaggi, veri anche nelle figure di contorno, corrisponde una trama avvincente, che lega lo spettatore alla sua poltrona e lo incanta con continui coup de th�atre.

"il commediante può recitare tutte le personalità in quanto privo di una sua personalità "    

Il sipario si apre su una scena di teatro nel teatro, che serve ad introdurre il protagonista di questo dramma: l'attore sfigurato diventa un uomo senza volto, un fantasma del palcoscenico, incarnazione del paradosso dell'attore diderotiano, secondo il quale il commediante può recitare tutte le personalità in quanto privo di una sua personalità. Si prosegue con un dialogo dei cattivi della storia, dove, un po' Iago e un po' Shylock, viene presentato Ferdinand Blast, viscida creatura che coltiva una spietata perversione: uccide i bambini, e in particolare i bambini poveri, allo scopo delirante di eliminare la miseria. Qui l'arte di Manfredi si fa teatro della crudeltà, e, ben lontano da qualsiasi straniamento brechtiano, mira a colpire allo stomaco lo spettatore, a cui non resta che rilevare come esista chi è più cattivo di Hogan: Hogan un motivo ce l'ha, il denaro, il potere, l'egemonia; Blast no, è il male pervertito, il male che trae piacere da se stesso. Ed è solo l'inizio. Il personaggio dell'attore senza volto rientra in scena introducendo il tema del doppio, così caro al teatro contemporaneo, eppure qui trattato con peculiare originalità narrativa. Su questo doppio Hogan commette il suo peccato di superbia, sognando l'ubiquità che un sosia manipolato gli può offrire. E, come MacBeth, paga la sua ambizione, perché l'uomo senza volto non è un uomo senza coscienza, il paradosso si scontra con la realtà: nessuno che sappia sorridere può interpretare Hogan fino in fondo. Ma non basta che la coscienza si riscuota, la tragedia pretende la sua catarsi, le Erinni hanno fame, e Poe, rivolgendosi alla Nemesi incarnata, Magico Vento, urla sulla scena: "Aspettami, voglio ammazzarli anch'io!". Non dalla giustizia degli uomini, però, potrà venire la purificazione: il giudice Kellogg impugna una bilancia truccata, il piatto pende sempre dove vuole lui; piuttosto la Tuche, cieca e cogente volontà degli dei, organizzerà la macchina infernale in cui cadranno Blast e Magico Vento.

"Poe, rivolgendosi alla Nemesi incarnata, Magico Vento, urla sulla scena: "Aspettami, voglio ammazzarli anch'io!""    

All'eroe dal multiforme ingegno, però, gli dei concedono il loro aiuto: le manette sono aperte, il cavallo è introdotto nella città di Ilio. Ma nell'attesa di poter agire, è all'uomo di legge che si affida la ricerca della verità, eterno problema dell'uomo: a chi credere, al ricco banchiere o al mezzo indiano? Come stanno le cose? Così, se vi pare. E mentre il coprotagonista spazientisce in cella, e mentre i comprimari si arrabattano sulla scena, il protagonista si vende il regno per un cavallo, e prepara il suo gran finale: all'ombra di un capestro approntato su di un palco (ulteriore gioco di specchi, ulteriore metafora del teatro come luogo dell'esistenza umana in cui si confondono illusione e realtà, giustizia e sopruso, vita e morte), tutti i personaggi si ritrovano per la scena madre: l'agnizione; afferrata a fatica la verità emerge, i cattivi sono costretti alla fuga, l'eroe insegue. Gli dei guidano la mano dell'uomo, Blast cade sotto l'ascia di Freccia Spezzata, Magico Vento insegue l'emissario del male, Herbert, cui pero' il destino ha riservato la fine dei deboli. La signora con la falce dice la sua, tutto il resto è silenzio. Eppure non è tutto, il protagonista ha ancora qualcosa da dire: l'uomo senza volto trova la sua ultima identità nell'emissario del male, incarna Herbert, e il pubblico già sa che questo lo dannerà. Ma su questa intuizione, l'autore, astutamente, fa calare il sipario.

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Dick Carr nel suggestivo b/n di Frisenda
(c) 1999 SBE
   

La regia di questa edizione è sempre di Manfredi, che gestisce la messa in scena con abilità e passione: la visione d'insieme non viene mai meno, colpisce la cura per i particolari, lo sguardo è globale. Oltre alla recitazione degli attori, misuratissima ed estremamente espressiva, la regia cura molto l'aspetto della coralità, vero tallone d'Achille del teatro contemporaneo, eppure qui risolta con insolita sicurezza: neanche la figura dell'eroe emerge dal coro, in fin dei conti egli stesso ne fa parte, la regia non ci presenta il testo come vuota riproposizione dell'archetipo o dello stereotipo dell'eroe, ma ci offre un quadro così ricco di particolari da incantare: è la grande magia del teatro, di una visione che coinvolge lo spettatore, fino a fargli confondere, tipicamente, illusione e realtà, fino all'evasione.



DISEGNI
Pasquale Frisenda    

In questo efficace lavoro di realizzazione, assolutamente centrale risulta l'impianto iconografico di Pasquale Frisenda: le scene, i costumi, le luci soprattutto, suggestivamente divise tra oscurità e chiarore, capaci di restituire una scena quasi in bianco e nero, splendidamente funzionale alla storia, fortemente evocativa.

Il palco resta decifrabile anche nelle frequenti zone d'ombra, il colore dominante è il nero, ma non si perde di chiarezza, e tra nebbia e abbacinante biancore, tra l'oscura notte della coscienza e dell'anima e il nitido lucore della stella dell'eroe, lo spettatore vive un'esperienza memorabile.

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Cielo e terra, buoni e cattivi, bianco e nero - (c) 1999 SBE



GLOBALE
 

Le locandine di Andrea Venturi continuano a piacerci molto, anche quando non sono particolarmente denotative, perché apprezziamo la scelta dei punti di vista, il taglio delle inquadrature. Anche in questa, il punto di vista, inusuale, si trova in alto a destra, l'eroe in primo piano è decentrato, ma l'immagine ha una notevole profondità e ci rimanda, obliquo, distorto, come in una ripresa dell'Othello di Welles, il mostruoso personaggio di sfondo. I punti di luce sono due, segno del dualismo di ciò che si racconta, l'immagine è ben impostata sulle classiche linee delle diagonali, con buoni rapporti tra pieni e vuoti.

Un altro particolare che accresce il valore globale della rappresentazione è che, come le altre recenti opere di Manfredi, anche questa si chiude con un finale quasi aperto, che causa nello spettatore l'insorgere di domande sui possibili sviluppi della situazione. Quasi dei cliffhanger, senza essere tali.
 

 


 
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