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" Il libro di Kells"

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Faerie

Pagine correlate:

Triste storia di una mezz'elfa
recensione di Francesco Manetti



TESTI
Sog. e Sce. Vincenzo Beretta
[e, non accreditati,
Leonardo Gajo e Domenico Gandolfi]
   

Uno fra i tanti meriti della serie dedicata a Martin Mystère è quello di non essere ancorata al ripetersi di un medesimo schema. Anche senza pensare alla atipicità di molti speciali (in particolare di numeri irresistibilmente demenziali come "Il tesoro di Loch Ness" MM sp2) e di quasi tutte le storie contenute negli almanacchi (dai what if dei primi albi allo steam punk delle avventure del Docteur Mystère), una varietà di schemi e di stili narrativi e di approcci al personaggio può essere rilevata anche all'interno della stessa serie mensile.

Lo schema più frequente - e il più "storico", per così dire, essendo stato lo schema col quale la serie ha debuttato - è quello di stampo avventuroso, nel quale il BVZM rivaleggia con l'Indiana Jones di Spielberg regalandoci storie dinamiche, di ambientazione esotica, nelle quali il pur colto Martin si dimostra anche un uomo d'azione, dotato di ottime doti atletiche, pronto a ricorrere ai pugni (e, un tempo, all'arma a raggi) per avere la meglio sui nemici. Si tratta, in sintesi, di storie d'azione, frequentissime in passato, oggi quasi del tutto scomparse.

Con l'invecchiare del personaggio hanno iniziato a prevalere delle "avventure" decisamente più statiche, nelle quali Martin, pur continuando magari a spostarsi in ogni angolo del mondo, si limita a risolvere i suoi casi impossibili tramite lunghe, estenuanti conversazioni, se non addirittura tramite vere e propre lezioni cattedratiche impartite, solitamente, al povero Java. Si tratta, essenzialmente, di storie di conversazione.

Ancor più recentemente, Paolo Morales ha esaltato delle potenzialità del personaggio sinora poco sfruttate, scrivendo storie nelle quali, pur essendo ancora una volta presenti le tematiche tradizionali della serie, viene posta particolare attenzione alla vita interiore del personaggio (o, come nel caso de "Il sarcofago di pietra" MM 187/189, alla vita interiore di un altro protagonista della serie). Sono, quindi, storie di introspezione.

Esiste infine un quarto tipo di storia, forse non frequente quanto i primi due, ma a mio avviso non meno caratterizzante la serie. E', anche questo, un tipo di storia nella quale la parola prevale sull'azione, sulla "avventurosità" vera e propria. Una storia, però, nella quale la compiaciuta pedanteria del Martin colto è sostituita da toni "brillanti" tipici del genere letterario e cinematografico genericamente definito "commedia". Martin parla, insomma, e magari continua a parlare molto, continuando ad esporre le sue fantasiose interpretazioni dei vari mysteri in cui incappa, ma si tramuta, da noiosissimo professore in cattedra, in un amabile - se non persino, a tratti, spumeggiante - intrattenitore.

Uno dei più riusciti esempi di quest'ultimo tipo di storia è rappresentato proprio dalla prima metà dell'avventura raccontata ne "Il libro di Kells". In questa prima metà della storia le classiche riflessioni erudite sono rese gradevoli, "leggere", dalla piacevolezza dei dialoghi fra Martin e i fratelli Lillian e Sean (i due personaggi coi quali Martin inizia la ricerca del prezioso scrigno che conteneva il libro di Kells), così come dalla presenza di gag e di altre simpatiche trovate (come, ad esempio, il far sì che Martin si ritrovi a conversare con Lillian in un tipico pub irlandese sfoggiando, incongruamente, uno smoking da grande occasione). Complice, inoltre, la vicinanza di Lillian, il detective dell'impossibile sembra addirittura ringiovanito anche nell'aspetto fisico :-).

"Nella seconda parte, si ha un brusco e del tutto inaspettato cambiamento di registro"
   

A partire, grosso modo, da pag.43 del numero 223 si ha però un improvviso mutamento di registro. Con l'irruzione della violenza da parte degli uomini in nero e, ancor più, da parte del vurklan Reginald Brooke, la vicenda si fa sempre più cupa, sino a sfociare in un unhappy end inaspettato e, per un albo bonelliano, abbastanza insolito. Ed è proprio la scelta di scrivere un finale così triste dopo una prima parte così eterea, o meglio ancora l'abilità nel far sì che un primo tempo solare possa essere seguito da un secondo tempo malinconico, amaro, se non addirittura tragico, a costituire il vero pregio del testo (assieme, beninteso, alla caratterizzazione di Lillian). Ne è una riprova il fatto che questa conclusione della storia sia talmente commovente da far quasi passare inosservato il pigiama con indosso il quale Martin, svegliato nel cuore della notte da Lillian, affronta gli uomini in nero e Brooke per poi ritrovarsi, nel regno delle fate, a sostenere un duro confronto - in questo caso solo verbale - con Viviana (la guardiana dei passaggi fra la Terra e Faerie), il cui cinismo apre una piccola crepa nell'apparente purezza del mondo fatato.

La gradevolezza della prima parte, la malinconia della seconda e la perfetta armonia fra queste due parti fanno passare in secondo piano anche i non pochi difetti del soggetto e della sceneggiatura, come l'eccessività di alcune gag (ad esempio, il fatto che Sean faccia proseguire il viaggio di Martin verso Donegal a dorso di Loreena, una bolsa cavalla), la fumosità di alcuni risvolti (tutto quel che riguarda il rapporto fra i genitori di Lillian è ben poco chiaro), la faciloneria di alcuni passaggi della trama (l'intuizione che consente a Martin di recuperare la pietra un tempo incastonata nel medaglione di Lillian mi pare un po' troppo "geniale"), se non addirittura la loro illogicità (per quale ragione i genitori adottivi di Lillian e di Sean preferirono nascondere, piuttosto che distruggere, le pagine del libro di Kells nelle quali era riportata la maledizione gravante sui due fratelli?).



DISEGNI
Franco Devescovi    

Come giudicare le tavole di un autore che, come Devescovi, ha adeguato il proprio stile a quello del principale disegnatore della serie a tal punto da trasformarsi quasi in un suo clone? Per certi versi, sarebbe forte la tentazione di bollarlo come "manierista" e di chiudere lì la questione. Sarebbe però un giudizio affrettato, in quanto "imitare" lo stile di un altro disegnatore non significa necessariamente essere privi di talento, così come forse non significa neppure rinunciare del tutto a manifestare la propria espressività.

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Faerie - disegno di Devescovi - (c) 2000 SBE

Devescovi ha preso a modello lo stile di Alessandrini, è un dato di fatto. Ma, si dovrà riconoscere, ha operato questa scelta spontaneamente e con una naturalezza tale da far sì che il lettore finisca col non porsi neppure più il problema della rassomiglianza fra le sue tavole e quelle dell'autore di riferimento.

E', in pratica, l'esatto contrario di quanto si può dire per la maggior parte dei disegnatori dello staff di Julia. Anche questi disegnatori, come Devescovi, rinunciano alle loro peculiarità espressive in nome di un adeguamento ad un modello unico di riferimento o, in base ad un'altra chiave di interpretazione, in nome di un asservimento (nel senso dispregiativo del termine) dei disegni ad una sceneggiatura di ferro (o, per meglio dire, a rigidi storyboards da "mettere in bella"). Il risultato, per quel che riguarda molti albi di Julia, è quello di trovarsi dinanzi a prove mediocri o comunque insoddisfacenti, vuoi perché non si capisce bene chi sia, per Berardi, il "modello unico di riferimento" (Vanini che ha creato graficamente il personaggio? Soldi che disegna le copertine? O magari Milazzo, dato che più di vent'anni di simbiosi lasciano inevitabilmente il segno?), vuoi perché non tutti sono in grado di far sì che le proprie tavole si limitino ad essere semplici ancelle delle sceneggiature.

Vanini, Soldi, Laura Zuccheri riescono a dimostrare comunque il loro talento (così come, per fare un paragone un po' forte, i grandi autori del teatro classico francese riuscivano a mostrare il loro talento, anzi ad esaltarlo, malgrado fossero "costretti" a rispettare numerose - e spesso astruse - regole). Le tavole di altri disegnatori di Julia sono, invece, una chiara manifestazione di disagio.

Non è certo disagio, al contrario, quello che trasmettono i disegni di Devescovi. Si potrebbe anzi dire che le sue tavole sono solari quanto è solare (malgrado la cupezza del finale di questa storia) il regno delle fate, o brillanti quanto è brillante la conversazione di Martin :-). Così come si può certo affermare che esse sono sempre godibili e sempre perfette anche nella resa delle intenzioni degli sceneggiatori.

Da notare, in particolar modo, come sia spinta all'estremo la tecnica della linea chiara nella sequenza ambientata a Faerie (da pag. 89 a pag.97 del n.223). Non una sfumatura, ombre ridotte al minimo, praticamente inesistenti: un'efficace rappresentazione del regno delle fate.



GLOBALE
 

Un'ottima storia, dunque, resa forse così bella dalle circostanze che ne hanno determinato l'ideazione e lo sviluppo (cfr. un intervento di Beretta riportato nella scheda), oltre che dalla particolare affinità che lega i tre sceneggiatori.

Beretta, del resto, ha sempre avuto come pregio, anche nelle sue sceneggiature scritte da solista, quello di far percepire al lettore il piacere che chi scrive prova per primo nel creare le proprie storie. Beretta, insomma, rispetta perfettamente la massima "se vuoi che io pianga, piangi tu per primo"; ed è forse proprio per questo che ben difficilmente una sua storia potrà risultare deludente.

Da menzionare, per concludere, entrambe le copertine. Particolarmente degna di nota quella del n.222, scherzoso inserimento di Martin e di Java in una tipica immagine da testo miniato di argomento religioso.

 

 


 
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