DYD 337, o delle aspettative

questioni di vite, di morti e di clonazioni nella sci-fi bonelliana
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DYD 337, o delle aspettative
Dylan Dog 337

Scheda IT-DD-337

Partiamo dal sottotitolo: presentato così, sarebbe stato più adatto per introdurre una riflessione generale sulle più o meno recenti (ennesime) vicissitudini di Nathan Never, nondimeno un suo senso potrebbe anche trovarlo in questo contesto.

"Dio è morto, Marx è morto, e io mi sento poco bene", sentenziava Woody Allen. Ecco quindi la prima di tante domande: Dylan Dog è morto? O è vivo (di nuovo)? Il downgrade di cui Recchioni parla a destra e a manca da circa un anno è abilitato a risolvere tale quesito, o introduce altre dimensioni interpretative che pur continuano a sfuggire al lettore casalingo di Voghera? Suddetto lettore, dal canto suo, non ignorerà però di certo l’altra massima secondo cui "tutto cambi, affinchè nulla cambi", come a dire: abbiamo assistito ad un lento processo di preparazione verso il breakthru più sbandierato della storia bonelliana, ed ora la pag. 98 del Dylan "lost in space" ci restituisce un personaggio tutto sommato (ancora) in linea con le ultime tendenze - un po’ come la pensione, che in genere si calcola partendo dai proventi dell’ultimo periodo di contributi. Ecco, la parola magica! Pensione! Stay tuned, si comincia a premere davvero sul deceleratore (downgrade, dicevamo) solo dal prossimo numero, quando l’ispettore Bloch appenderà Scotland Yard al chiodo.

Torniamo all’albo in questione: grafica di copertina per quanto possibile snellita; nuovo frontespizio, attraverso il quale Stano omaggia quella "Golconda!" dei tempi che si promette ri-saranno, miscelandolo efficacemente con il tema che ci ha fatto compagnia fin dal 1990. Dylan continua ad essere a capo di un "quarto stato" di umane mostruosità e mostruose umanità, ma adesso la dinamica grafica induce con maggiore forza l’idea di "cast screen", tipico di qualsiasi produzione televisiva che si rispetti. Quasi ci si aspettava che i nomi degli autori comparissero dopo qualche pagina, dopo una breve sigla/jingle di apertura.

Il primo vero intervento di Recchioni si vede proprio in questi accorgimenti; direttamente da "David Murphy: 911",tanto per citarne uno, il linguaggio e le tecniche (tele)filmiche ne hanno profondamente influenzato pensiero ed azione, ponendolo come faro ubiquo della cultura popolare. Questo non va contro la complessità del carattere "Dylan", anzi! Sclavi presenta al mercato degli anni ’80 il coacervo - anzi, l’alchimia - frutto dalla sua immensa massa di conoscenze secondo una ricetta chiaramente irripetibile. Recchioni sta provando a riprodurre questa irriproducibilità, potendo contare dalla sua Sclavi in persona (che non è poco!), una élite di sceneggiatori che hanno contribuito a far crescere Dylan nel tempo, interpretandolo e giustamente complessificandolo, una casa editrice che gli ha dato la necessaria libertà creativa, e non ultimo la citata conoscenza del mezzo pop (da intendere nel suo senso più alto, se ve ne è uno). Immaginate la famosa "scena della lettera" tra gli immensi Totò e Peppino de Filippo, e cercate di pensare ad un epigono dei due che si fosse cimentato negli anni ’70, con il loro aiuto, a riprodurre quanto più fedelmente possibile quei poderosi cinque minuti di storia del cinema, pur nella coscienza di non essere più negli annessi e connessi dell’anno del Signore 1956.

La pag. 5 dà quindi il via alla ridda di citazioni. C’era un tempo in cui l’autore postava sul suo blog tutti i retroscena delle sue storie dylaniate appena uscite in edicola; ignorando ad horas se i network sociali siano già stati invasi da post analoghi, una panoramica "a volo d’uccello" sulla storia restituisce echi e rimandi a diversi livelli da(tra gli altri): 2001, Carpenter, Alien, Matrix, Evangelion, Watchmen, Fringe, Utopia, western di varia, Governo e campionato di calcio inglese. A questi vanno ovviamente associati (sempre tra gli altri) John Doe, Orfani, Constantine, Nathan Never e lo stesso Dylan Dog (tra l’altro, un Dylan nello spazio appare già nello Speciale n.8).

Questa somma fa un totale? Sì, nel senso che ci restituisce "uno" dei possibili totali, e proprio questo fatto ne altera da un lato la resa, e dall’altra lo sforzo di analisi e critica. Quando il materiale narrativo è poco meno che sterminato, va lodata la capacità di attingere con coerenza ciò che serve, nella misura in cui si vuole perseguire un dato quadro d’insieme - il soggetto di massima, a sua volta inserito nel percorso di restyling. Al soggetto potrebbe non corrispondere una trama a bella posta (ricordate "Horrorpoppin’ "?); nel caso in questione, l’apparente sparigliamento di carte conseguente all’impiego di un contesto "altro" induce un apparente piano di lettura di tipo "what if?", che l’autore decostruisce nel corso della storia grazie ad uno specifico artificio narrativo, per poi però tornare più o meno inconsciamente a riproporlo nel finale (e in questo si possono annoverare come precedenti il n.250, o la terza storia del Maxi n.6). Ecco quindi che la domanda iniziale si ripropone con prepotenza: Dylan è morto? O è vivo? O magari è clo-nato solo ora? Il Dylan Globetrotter Team che tiene banco nella parte centrale della storia cerca a modo suo di esplorare una simpatica variante di un classico tòpos narrativo, nel quale le qualità dell’autore devono emergere attraverso un sufficiente tratteggio di ogni singolo personaggio, filtrato attraverso il gioco degli stacchi di ambientazione ed il numero delle tavole disponibili. Recchioni sceglie una soluzione sbilenca, privilegiando del team i due elementi che più ricordano la coppia Nathan Never-Link, pur senza rinunciare al fan service (l’omaggio più o meno velato ai Fantastici 4, o la sequenza con Bree): un’operazione chirurgica che ricorda molto da vicino quelle già portate a termine con successo da Paola Barbato con il n.200 e la doppia del ventennale.

Nulla di nuovo sotto il sole per l’autore romano, insomma, ivi compresi l’epilogo del confronto con "Groucho", o la sorta di postilla finale, che tenta ben due coup de theatre nell’arco di poche pagine, lasciando però al lettore più smaliziato quel po’ di amaro in bocca che un omaggio - magari più spudorato - a "In the mouth of madness" avrebbe verosimilmente risparmiato.

Il più (o forse proprio il solo) nathanneveriano tra i disegnatori dylandoghiani è quel Nicola Mari che nel corso degli anni ha mutato pelle in una sorta di gaussiana stilistica capovolta, partendo cioè da una vetta e toccandone un’altra, dalla resa tanto simile alla prima quanto significativa di per sé. I colori di De Felice impreziosiscono, pur non costituendo un elemento stilistico imprescindibile, e questo paradossalmente la dice lunga sul valore di entrambi gli esponenti del reparto grafico. Se si cerca il Dylan à la Everett allora bisogna cercare altrove: quello di Mari è un Dylan che vive di una luce che coniuga fedelmente tradizione e rinnovamento personale, e la richiesta di cimentarsi nella rappresentazione di ben cinque diverse varianti (tra cui una femminile) dello stesso soggetto ne è la prova più evidente. A dirla tutta, laddove le motivazioni prima esposte hanno per certi versi limitato l’approfondimento psicologico di ogni singolo Dylan, il comparto grafico è riuscito ad intervenire arginando le falle e risalendo ampiamente la china, come a dire: il cosiddetto "fumetto" è una commistione di testi e disegni che va ben oltre la dimensione (tipo)grafica.

Come già accennato a diverse riprese in precedenza, fare un’analisi di questa storia implica uno sforzo che comprende un’intero settore della politica commerciale di un big del nostro paese; un conto è quindi parlare di bonellidi che crescono proprio tenendo di fronte il loro modello e padre, un conto è comprendere che anche i padri possono (a ragione?) cercare di rimodulare la propria identità. In conclusione, indulgendo nell’autocitazionismo, riporto ancora una volta le parole di Paola Barbato, secondo cui "se mai qualcuno avrà la possibilità di creare un continuum nelle storie allora forse lo stile di DYD cambierà". The time is now?

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