Morte&Amore

il mondo osservato attraverso la lente prismatica della fantasia
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Morte&Amore
Le Storie 1

Morte&Amore

Scheda IT-LSTR-1

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C'era una volta...

C’era una volta un brutto anatroccolo, che i casi della vita introdussero alla scrittura di Dylan Dog. Le sue prime storie furono verbose, fumettisticamente sgrammaticate, narrativamente squilibrate; e per lungo tempo fu chiaro che l’anima del personaggio era aliena alle sue corde più intime. Ma come ben prima di Walt Disney ci ha insegnato Hans Christian Andersen, un brutto anatroccolo è qualcosa di diverso da una comune anatra. Sin da quei suoi esordi sgrammaticati e così spesso prolissi e mal organizzati sulle pagine degli albi, Paola Barbato mostrò, con tutta la limpidezza di un rigore da narratrice autentica, la fervidezza della sua fantasia e la forza della sua ispirazione. Che fosse una narratrice di razza era evidente. Tutto stava a vedere quando il cigno avrebbe dismesso le sue piume d’anatra e indossato la propria livrea. Ciò che con il tempo avvenne, seguendo la curva di una crescita erratica, poco lineare e assai personale, ma nel complesso solida e continua. Sia nell’ambito del fumetto, dove con Sighma diede prova con chiarezza delle sue doti nel momento in cui fosse libera di far uso della propria immaginazione con maggiore libertà; e dove le sue più recenti prove per Dylan Dog mostrano una comprensione molto più profonda del personaggio e delle sue caratteristiche, senza per questo che Paola Barbato abbia rinunciato alle proprie.
Che fosse una narratrice di razza era evidente. Tutto stava a vedere quando il cigno avrebbe dismesso le sue piume d’anatra e indossato la propria livrea.
Sia nell’ambito della narrativa, dove per altro confesso di averla seguita di meno, avendo letto solo il primo romanzo, Bilico, per scarsa sintonia con il genere da lei prediletto; romanzo che al di là dello scarso equilibrio caratteristico della Barbato prima maniera, lasciava vedere ancora una volta la gran stoffa di chi sa raccontare storie. Perché dentro di sé ha una sua propria storia che preme per uscire dalla gabbia del corpo e trovare sfogo all’esterno: sfogo che la scrittura offre nella maniera più potente. Una storia, non solo individuale, ma che con il tempo ha sempre più preso l’aspetto di narrazione simbolica. Con Sighma è più evidente che con Bilico (e naturalmente con Dylan Dog, dove l’autrice deve pur sempre fare i conti con una genetica del personaggio che non è la sua - e con fisime editorial-redazionali di potenza inferiore solo a quelle che si esercitano su Tex). Con Il boia di Parigi questo aspetto si manifesta con rinnovata e più elaborata forza; sebbene forse con minor evidenza a un’attenzione superficiale.

La "Louisette" in azione
disegni di Giampiero Casertano, Le Storie n.1, pag.16

(c) 2012 Sergio Bonelli Editore

La "Louisette" in azione<br>disegni di Giampiero Casertano, Le Storie n.1, pag.16<br><i>(c) 2012 Sergio Bonelli Editore</i>

Sanson - L'icona e l'uomo

Come spesso è per l’autrice, Il boia di Parigi è senza meno una storia controversa; e ancor più è una storia atta a suscitare controversie. In apparenza ripropone quello sbilanciamento comune a tante altre storie di Paola Barbato. A una prima parte - evocativa, rigorosa, emozionalmente controllata e stilisticamente equilibrata - se ne contrappone una seconda - più enfatica e confusionaria, più retorica e assolutizzante. Si tratta però di una contrapposizione epidermica e formale, in ultima analisi insussistente. L’intero racconto, sebbene sia chiaramente distinto in due parti, è infatti percorso dallo stesso rigore stilistico, dall’interpretazione visionaria dell’autrice e da una grammatica simbolica unificante che si traduce nella libera reinterpretazione degli avvenimenti storici, dei loro protagonisti, delle loro psicologie - e soprattutto in una libera reinterpretazione che è finalizzata a un discorso strettamente personale. Nella prima parte, che forse si vorrebbe in qualche modo aderente alla realtà storica seppure fortemente romanzata, non vi è meno tensione morale, partecipazione personale e rappresentazione simbolica dell’esistenza umana. Esistenza individuale, che si addensa nella figura di Charles-Henri Sanson, boia malgré-lui verrebbe da dire, e simbolo della resistenza della vita - fisica e spirituale - alla morte; cerniera tra la vita e la morte.
Chi sia stato il Sanson reale, che visse e giustiziò nella Parigi pre e post-rivoluzionaria oltre che in quella rivoluzionaria, è ininfluente ai fini di questa sua raffigurazione.
Chi sia stato il Sanson reale, che visse e giustiziò nella Parigi pre e post-rivoluzionaria oltre che in quella rivoluzionaria, è ininfluente ai fini di questa sua raffigurazione. Non importa che sia stato davvero o meno amico di Danton, un uomo di vent’anni più giovane di lui, o che l’esecuzione dello stesso si sia svolta come narrato da Paola Barbato: nella sua biografia di Danton Louis Madelin scrive che Il carnefice aveva fretta. Bisognava che i quindici uomini fossero "liquidati" prima che il sole fosse scomparso. Hérault volle abbracciare Danton. Sanson li separò. "Imbecille", fece il tribuno, "impediresti alle nostre teste di baciarsi nel paniere?" Né ha importanza che sia stato Sanson l’esecutore di Maria Antonietta, o come altri affermano il figlio maggiore Henri, succeduto al fratello minore, dopo la morte accidentale di costui, come aiutante del padre. Del resto, nel fumetto, dei figli di Sanson - già adulti all’epoca della Rivoluzione - non vi è quasi traccia e si è indotti a crederli dei bambini. Il Sanson reale non ha importanza, è l’icona ad averne. Il coagulo di simboli.

Sanson e Danton
disegni di Giampiero Casertano, Le Storie n.1, pag.40

(c) 2012 Sergio Bonelli Editore

Sanson e Danton<br>disegni di Giampiero Casertano, Le Storie n.1, pag.40<br><i>(c) 2012 Sergio Bonelli Editore</i>
Sanson avrebbe per mestiere e ribalta i caratteri dell’eccezionalità, ma Paola Barbato ce lo mostra vivere e operare come un individuo che pur conscio della sua particolarità si sente soprattutto uno strumento della necessità. Evidente sin dalle prime pagine dell’albo, questo tratto riemerge carsicamente nel corso della storia narrata, per esplodere definitivamente nella sardonica vignetta finale, trionfo autentico della strumentalità dell’individuo. E al contempo della sua ribellione - che solo l’individuo umano può compiere - rispetto a questa funzione. Ribellione a cui l’intelligenza umana, applicata con rigore e attenzione, permette di cogliere delle pur piccole vittorie. Forse peccheremmo di analisi psicologica indebita se volessimo attribuire caratteristiche autobiografiche a questo Charles-Henri Sanson di fantasia; e tuttavia la tentazione è troppo forte per non esternare la possibilità. Esistenza sociale, perché il Sanson di Paola Barbato vive e agisce inserito nella realtà dei suoi tempi, oltre che esterno ad essa. Una realtà mutevole e ingannevole, in rapido divenire e frenetico trasformarsi. Una realtà di violenze e tensioni, di rivolgimenti epocali che si riflessero sulle esistenze individuali, squassandole spesso e volentieri. Un’epoca che per molti versi è simile alla attuale.
L’individuo vive di soddisfazioni individuali, e Sanson è icona in primo luogo dell’individuo umano, delle sue contraddizioni, aspirazioni, sentimenti, paure, pulsioni inconfessabili, slanci idealistici e riflessioni razionali.
Sanson resiste a tutti i colpi di questa realtà, contrattaccando nel solo modo possibile a uno spirito fortemente individualista seppure attraversato dal sentimento della pietà e dall’ideale della giustizia: con il terrorismo, l’arma dei poveri. Al Terrore istituzionale contrapporrà la sua propaganda terroristica dal basso, la sua rivolta individuale. Il suo risultato, come il Sanson-Icona è ben conscio, è infatti puramente individuale: morto Robespierre arriverà Napoleone, e in seguito addirittura la Restaurazione. Tuttavia, l’individuo vive di soddisfazioni individuali, e Sanson è icona in primo luogo dell’individuo umano, delle sue contraddizioni, aspirazioni, sentimenti, paure, pulsioni inconfessabili, slanci idealistici e riflessioni razionali. Tuttavia, e Paola Barbato lo sa ed è per questo che Sanson può esprimersi come fa nell’ultima vignetta, la profonda trasformazione sociale latente e presente già da lungo tempo nella società (francese) dell’epoca e poi conflagrata nelle fasi iniziali della Rivoluzione, quelle di più schietta derivazione illuministica, non si arrestò. Nonostante la deriva regressiva iniziale, che prese dapprima la strada del Terrore e del Gran Terrore e poi della dittatura napoleonica e infine di quella narcosi morale e del pensiero che fu la Restaurazione, la mutazione psicologica, filosofica, etica e sociale prodotta dal pensiero rivoluzionario inaugura l’ascesa delle visioni liberali e socialiste che percorreranno la storia europea e americana per tutto il XIX secolo e fino alla metà del XX, conducendo in una con il progresso scientifico e tecnologico, in non piccola parte reso possibile da tale temperie, alla più spettacolare fase di innalzamento del benessere materiale e spirituale per moltitudini umane dalle dimensioni mai prima sperimentate. Tuttavia (e tre ;-)), tutto ciò interessa molto relativamente a Paola Barbato: forse solo in quanto la storia successiva permette di riconnettere la valenza simbolica dell’ultima frase del suo Sanson al flusso materiale degli eventi.

Robespierre - il puro simbolo

L’Icona-Sanson è circondata nel fumetto da altrettante icone. Anche nella prima parte del racconto, quella che appare più rigorosa e più "storica", è non meno evidente che l’autrice attribuisce ai suoi personaggi, storici o meno che siano, una valenza eminentemente simbolica, finalizzata alla rappresentazione dell’agire umano nel flusso della storia e dell’agire delle forze storiche in divenire sulla coscienza individuale.
Robespierre e Saint-Just sono ridotti a meri santini perché sono funzione e simbolo della cecità di un potere privo di razionalità e dimentico di umanità, della sua violenza psicopatogena laddove l’individuo si abbandoni all’istinto.
Robespierre e Saint-Just sono ridotti a meri santini perché sono funzione e simbolo della cecità di un potere privo di razionalità e dimentico di umanità, della sua violenza psicopatogena laddove l’individuo si abbandoni all’istinto. Perché mostrano la trasformazione delle idee e delle ideologie in quel veleno dell’anima e della coesistenza che sono gli ideali; i quali sollevano a Verità le opinioni ed elidono il ragionamento e il confronto in favore dell’affermazione della suddetta Verità nei confronti di tutti. Politici o religiosi che siano, gli ideali annullano la ragione, come ben dimostra l’assurda ipostasi rivoluzionaria della Dea Ragione e conducono alla tomba il confronto politico e sociale, il dibattito culturale, le idee e le ideologie in contrapposizione sinergica (e spesso energica). E con quelli e con queste, schiacciano gli individui che intralciano il loro cammino verso la vittoria totalizzante. E’ questo che riassume il ghigno che perennemente osserviamo sui volti di Robespierre e di Saint-Just. Robespierre e Saint-Just del Terrore furono gli interpreti più noti, quantunque la loro adesione ai metodi del medesimo fu spesso riluttante, soprattutto nelle fasi iniziali del periodo, per poi finirne più che altro travolti (Robespierre agì spesso per moderare il fanatismo, soprattutto in funzione anti-hebertiana: almeno fin quando non reagì contro gli opposti estremismi finendo per andare contro i propri convincimenti più profondi). E quantunque non sia possibile vedere nei due gli iniziatori del Terrore e tanto meno quei protagonisti totali, se non forse nelle fasi immediatamente precedenti la loro caduta. Ma sono le figure che nell’immaginario comune incarnano la Rivoluzione, e più correttamente quel suo volto negativo che fu il Terrore, in contrapposizione magari a Mirabeau e allo stesso Danton. Porre più correttamente sul proscenio del Terrore Hébert e la sua fazione, non a caso del tutto assenti, non avrebbe avuto lo stesso impatto. Questa simbolizzazione destoricizzante è più evidente nella seconda parte della storia, che si può far iniziare a pagina 52, ma non è assente in precedenza.

Sanson e Robespierre
disegni di Giampiero Casertano, Le Storie n.1, pag.29

(c) 2012 Sergio Bonelli Editore

Sanson e Robespierre<br>disegni di Giampiero Casertano, Le Storie n.1, pag.29<br><i>(c) 2012 Sergio Bonelli Editore</i>

Coagulo di simboli, le altre icone - ma anche la vita, l'universo e tutto quanto

E’ un simbolo - riflesso - il popolo parigino. Questa bestia ingovernabile e inconoscibile che tutti a turno e alternativamente vogliono sedurre, governare, indirizzare, blandire, terrorizzare, demonizzare, innalzare, glorificare - ma che nessuno ama. Neppure Sanson, che ne è divenuto l’eroe malgré-lui: individuo-icona, non può amare sinceramente la moltitudine indistinta del popolo, anche se lui pure, come tutti gli altri, con il popolo e dentro il popolo vive. Simbolo riflesso per questo: perché ciascun individuo, di questo popolo ha una visione e a questo popolo rimanda una visione di sé. Che spesso restano sconosciute l’una all’altra, tutti i canali di comunicazioni interrotti. Non solo con le figure apicali del re e della regina di Francia, che in fondo furono molto più dei poveri diavoli affatto al di sotto della loro funzione che non i carnefici del loro popolo; anche Sanson, che pure al popolo potrebbe essere più vicino gli resta sostanzialmente estraneo. Non vuole conoscerlo, non saprebbe conoscerlo. Sanson esercita la pietà per degli individui, non per una società. Tanto meno per una classe precisa della società. È chiaramente un simbolo la ghigliottina, così matericamente presente dalla prima all’ultima tavola, a sussumere la costante della violenza che l’uomo perpetra sui suoi simili, e memento fin troppo beffardo della neutralità asettica del progresso scientifico, che l’uomo riesce a piegare in ogni modo ai propri fini di sopraffazione, di stolido controllo, di tribale conflitto.

Ma più forte di ogni altro simbolo è quello rappresentato dall’innominata dama della carrozza nera che Sanson sarà costretto a ghigliottinare a pagina 103. Non tanto - non perché l’esecuzione della donna scateni il finale degli eventi. Donna di cui più che essere innamorato ricambiato, Sanson è fratello in spirito come ella gli è sorella: il loro è un amore che oltrepassa la dimensione del sentimento: è una risonanza dell’anima. Non tanto per quella parentela nella morte che i due condividono senza bisogno di inutili parole - ed è MERAVIGLIOSAMENTE confortante che del passato della donna non ci venga detto nulla, neppure il suo nome. Paola Barbato lascia che siano le parole strettamente necessarie che si scambiano i due a parlare di quel passato, svelandone l’unico aspetto essenziale alla comprensione del lettore: il dolore condiviso. Dolore che Sanson e la dama mostrano con la postura, i gesti, i silenzi, le espressioni del volto, le parche parole. Dolore che risuona dall’una all’altro.

E' meravigliosamente confortante che del passato della donna non ci venga detto nulla, neppure il suo nome. Paola Barbato lascia che siano le parole strettamente necessarie che si scambiano i due a parlare di quel passato, svelandone l’unico aspetto essenziale alla comprensione del lettore: il dolore condiviso. Dolore che Sanson e la dama mostrano con la postura, i gesti, i silenzi, le espressioni del volto, le parche parole. Dolore che risuona dall’una all’altro.
Il valore simbolico della dama nella carrozza nera trova però compiuta realizzazione nelle sue parole a pagina 103. Introdotte da quanto dice lo stesso Sanson a pag.68 (Solo la morte mi è padrona. (..) La morte e l’amore.), le parole della donna potrebbero suonare banali, scontate. Retoriche. Sapete cosa fare, ora. Ricordate che il mistero dell’amore è più grande del mistero della morte. Esse tuttavia non sono soltanto il programma che, analizzando con attenzione, intesse di sé l’intera storia. Non solo Sanson, questa icona della morte appare tuttavia mosso in tutte le sue azioni da una ricerca inesausta e mai completamente soddisfatta di un’equazione d’amore che gli permetta di vincere la sua pulsione di morte. Non solo è l’amore a esercitare un richiamo potente sulla dama della carrozza nera, a vincere contro tutti i dolori apportatile dalla morte. E non solo tutti i grandi e i piccoli personaggi, proprio nel momento della loro morte segnano un punto per l’amore: dal ladruncolo delle pagine iniziali che nella morte incontra forse il solo atto di solidarietà e d’amore di una vita grama; allo stesso Robespierre-Icona mosso nelle sue azioni dall’amore per i suoi ideali, e che nel momento finale della sua vita muore ancora ottenebrato da essi, ma pur non domo e ribelle alla morte. Tutto questo è ancora poco per sfuggire a una visione riduttiva e forse edulcorata di questa grande contrapposizione dialettica. Se non fosse che quelle parole innervano non solo la nostra vita di individui, non solo la storia collettiva che i miliardi di individui che siamo e che fummo ha costruito nel tempo. È la stessa - apparente - dialettica tra organico e inorganico che pare riflettersi in quelle scarne parole. Tra entropia e vita: morte e amore in un certo modo. Confesso la mia predilezione per interpretazioni estreme, tuttavia credo che il valore di un’opera dell’ingegno umano risieda non poco nelle riflessioni che essa innesca in chi vi entra in contatto. E se queste interpretazioni appaiono e possono apparire molto oltre la lettera dell’opera, forse la lettera dell’opera è molto più fertile e profonda di quanto si colga a prima vista. Per questo, seguita agli accadimenti della storia narrata da Paola Barbato, la lettura delle parole della donna mi ha condotto a veder riassunta in esse la contrapposizione filosofica tra due dei maggiori uomini di scienza del secolo scorso: Jacques Monod e Ilya Prigogine. Riassumo semplificando indecorosamente: la posizione monodiana vede nella vita un accidente del caso, una transeunte eccezione episodica alla direzione della materia verso il disordine dell’inorganico; Prigogine teorizza un universo in cui l'originarsi della vita organica non è un’eccezione, ma una conseguenza della struttura della materia inanimata e del suo organizzarsi nel tempo - non in senso finalistico, naturalmente. Entrambi tuttavia derivavano dalle loro così diverse posizioni la convinzione che fosse tempo che l’umanità si assumesse i rischi connessi alla propria esistenza, alla propria vita nel mondo. Rischi che indubbiamente contemplano anche la morte. Riconosco che si tratta di un’interpretazione estrema, ma essa non è soltanto seducente, è anche coerente con l’architettura e la struttura profonda della storia. In ogni sua azione Sanson si assume la responsabilità di ciò che fa, e la morte è sempre contemplata come un rischio del suo agire. Così come è l’amore, sebbene tanto mutilato, incarnato dalla dama della carrozza nera a segnare alla fine un punto sul Robespierre-Icona, che nella storia è l’araldo della morte.

Una traduzione grafica sontuosa

A questa opulenta allegoria nera e di luce, Giampiero Casertano offre una traduzione grafica altrettanto sontuosa: policroma viene da dire, a onta del fatto che l’albo è in bianco e nero. E del resto il bianco e nero è perfetto per il tratto così grottesco e pieno, perfino caricaturale a volte, con il quale il disegnatore mette sulla pagina gli attori del dramma, gli ambienti nei quali esso si svolge e le emozioni che scatena. Perché è indubbio che il lavoro di Casertano materializzi le emozioni di cui vive l’intera narrazione. I volti esprimono una profondità realistica che a prima vista apparirebbe incongrua con la raffigurazione caricaturale e deformata che spesso ne dà l’artista, eppure la fisicità reale dei piccoli come dei grandi protagonisti del racconto non è soltanto in armonia con la necessità di farne delle figure simbolo, è anzi un vettore straordinariamente efficace di questa loro valenza simbolica. È proprio l’espressività, l’umanità piena che Casertano conferisce ai vari Robespierre, Saint-Just, Legrand, al re di Francia come agli anonimi aristocratici ghigliottinati da Sanson o al ladruncolo delle prime pagine dell’albo, a rendere tutti loro dei simboli iperrealistici, e così efficaci. Oltre a plasmare per l’intera struttura del racconto e ogni singola scena quel pathos e quella drammaticità necessari a dare corpo pieno alla profusione simbolica del racconto barbatiano.
Il lavoro di Casertano materializza le emozioni di cui vive l’intera narrazione.
Oltre che una scena compiuta in sé, e di straordinaria visionarietà immaginativa, le due tavole mute (pagg.66-67) del rogo delle teste sono non a caso un simbolo nel simbolo. Un punto di svolta di tutta la storia. È lì che Sanson, per quanto possibile alla sua figura duale, accantona l’attrazione prevalente che la morte esercita su di lui e che aveva espresso qualche pagina prima (pag.59: Cosa può fare Robespierre, mandarmi a morte? (..) Che si accomodi, non chiedo di meglio.) per volgere la sua attenzione alla vita e all’amore con caparbia e dura determinazione. Con le teste, egli seppellisce e brucia il suo passato di osservatore della morte, di equanime esecutore, e di riequilibratore della dignità dei condannati. In un momento tanto simbolico, egli è uomo autentico più che in ogni altra sequenza del racconto. È il disegno di Casertano a rendere ancora più evidente questo passaggio e questa momentanea e piena umanizzazione dell’Icona. Più che in ogni altra scena è qui che osserviamo un dolore reale nella apparente rilassatezza della sua figura, e una reale e umana determinazione a fare ciò che è giusto per sé.

Il segreto di Sanson
disegni di Giampiero Casertano, Le Storie n.1, pag.67

(c) 2012 Sergio Bonelli Editore

Il segreto di Sanson<br>disegni di Giampiero Casertano, Le Storie n.1, pag.67<br><i>(c) 2012 Sergio Bonelli Editore</i>

... e speriamo che vivranno tutti felici e contenti leggendo sempre delle belle Storie

Una volta di più il formato bonelliano si dimostra pressoché perfetto, forse il più adatto, a raccontare storie che posseggano il respiro del romanzo autentico. Purché vi siano volontà editoriale e talento degli autori. E la prima sorregga la convinzione dei secondi fino in fondo. Oggi è stato così, Paola Barbato e Giampiero Casertano hanno saputo costruire e offrire ai lettori un fumetto che riconcilia con questa arte tanto povera - di mezzi economici e di necessità produttive, non certo di potenzialità, che sono anzi quasi infinite. Proprio per questo un’arte tanto adatta a narrare in piena libertà espressiva e con la possibilità di "parlare" sia con il mezzo analitico della parola che con quello sintetico dell’immagine. Speriamo che duri. Il boia di Parigi, Le Storie n.1, di Paola Barbato e Giampiero Casertano, 110 pg. b/n, brossurato, Sergio Bonelli Editore, ottobre 2012, € 3,50

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